Può la lotta per la parità delle donne essere usata come cosmetico storico per coprire le cicatrici del pensiero unico liberista? La risposta sembra essere – sì.
La polemica sulla sedia mancante per Ursula Von Der Leyen è l'esempio più perfetto, rotondo ed efficace di "Pink washing liberista": l’utilizzo da parte del capitalismo anche di rivendicazioni femministe, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica e al contempo distogliendola tacendo - la cornice, enorme e ben più grave nella quale quel gesto è inserito. Una cornice che racconta l’irraccontabile, la diseguaglianza che unisce tutte le disuguaglianze: un’ Europa ed un sistema economico che chiede a colui che scandalosamente Draghi ha chiamato “dittatore di cui abbiamo bisogno”, di tenere fuori dal nostro pianerottolo - i disperati. A qualsiasi condizione. E sotto pagamento. Nostro. Se il gesto di Erdoğan è stato un modo indecoroso per riaffermare un pensiero umiliante della donna, è doveroso dire quello che si vuole tacere: Ursula Von Der Leyen è andata ad Ankara con l'intenzione consapevole, convinta e determinata, di umiliare il principio che questa Europa sembra porre all'ultimo posto nella sua scala di valori: la solidarietà e la giustizia sociale. Ursula von der Leyen è andata ad Ankara per farsi umiliare. Ma non solo come donna. Come rappresentante dei cittadini europei, facendoci arrivare un messaggio preciso: noi, in Europa, i disperati in cercano di una vita migliore non li vogliamo. E che per tenerli lontani siamo disposti a tutto, anche a pagare dittatori o rappresentanti di democrature. Von Der Leyen è anche l’esempio di una umiliazione più grande: l’ascesa al potere per le donne è consentito unicamente se la donna sceglie di abbracciare il sistema di controvalori che umilia non solo le donne, ma gli ultimi, i dimenticati, gli invisibili. Ursula Von Der Layen è andata ad Ankara per umiliarsi anche in quanto donna che ha deciso di abbracciare un sistema disumano – che include proprio quella parte di classe sociale oppressa dalle istituzioni, le donne. Un sistema che non vuole le migrazioni né la libera circolazione. E perché non la vuole? Per motivi, ancora una volta, legati alla profonda disumanità di questo sistema economico: vietare la libera circolazione è una delle condizioni per poter delocalizzare le aziende là dove il costo del lavoro è ben più basso e, soprattutto, avere una manodopera ricattabile e senza vie di uscita se non quella di accettare quei lavori con meno diritti e salari ridicoli. Se per un cittadino di qualunque Stato esiste anche solo l’ipotesi di fuggire via per lavorare a migliori condizioni, allora quella persona è meno ricattabile nel suo luogo di origine. E allora, quella speranza diventa ciò che rende un disperato, nuovamente – una persona con una piccola scintilla: il desiderio di vita migliore non ancora totalmente domato. La libera circolazione aumenterebbe la consapevolezza di condizioni migliori, e così le sindacalizzazioni. Ma il sistema neoliberista ha bisogno di popoli disperati pronti ad accettare qualunque condizione lavorativa - nei loro luoghi. Che di questa ignominia – la trattativa per negare diritti umani a milioni di persone in fuga - ne sia il mandante una donna, è un’aggravante ed una ulteriore sconfitta: una donna che ottiene il potere ai vertici per negare diritti umani ad altre donne – come le donne curde e le donne siriane direttamente danneggiate dalle politiche europee – è una conquista? Per chi? Forse proprio per quel potere neoliberista e patriarcale. Potere che promuove, agita e diffonde un’indignazione facile, veloce e limitata che fa identificare Ursula von der Leyen solo come una donna e non come una degli esecutori del programma irraccontabile: aiutiamogli a restare schiavi, delle nostre aziende, a casa loro. Alessandro Negrini Il Pub delle frasi apre quando Fiona sogna.
Appare, di notte, tra il rantolo del motore dell'elicottero in ricognizione e l’inaspettato calore d'inverno della memoria. L'arrivo al Pub delle Frasi è sempre casuale quando, girando l’angolo di un ricordo, si viene colpiti dall’improvvisa febbre del dire. Talvolta, arrivati davanti, si trovano tutte le porte ben chiuse ed occorre bussare con una mano ferma, decisa e incurante della ragione che c’insegue a dirci che un sogno è solo un sogno. Una volta dentro, al bancone, al Pub delle Frasi puoi ordinare una pinta di avverbi, di sostantivi, di verbi o una caraffa di frasi - che cominciano, la famigerata birra Incipit. I raffinati a volte ordinano i congiuntivi, una bevanda scura e densa di continuazioni profonde, ma solo se la pinta è ben spillata. Gli estroversi iniziano e finiscono la notte con gli aggettivi, che però necessitano di una spillatura lenta, dando loro il tempo di non accumularsi e di sistemarsi in giusta dose nel bicchiere, onde evitare un eccesso di schiuma. Conal, il più audace, ordina la "Ale" delle frasi d'amore. Nel Pub delle Frasi puoi narrare, trovare o perdere la frase che berrai, ogni tipo di slancio e ogni tipo di caduta in ogni tipo di bicchiere, fino all’insistente lampeggiare, quando le luci segnalano l'ultimo ordine al bar: e allora, in quel momento, si sceglie l'ultimo nome, l'ultimo verbo, qualcun altro l'aggettivo finale o mezza pinta di punteggiatura ed allora, in quel momento, dimenticando che tutto finisce e ricordando che si vive per sentirsi un noi , tutto il Pub forma e canta la sua comune, ubriacante frase della notte. Il pub delle frasi riapre quando Fiona sogna. Alessandro Negrini THE PUB OF PHRASES The Pub of phrases opens in Fiona’s dream, between the helicopter’s rotor-rattle on reconnaissance, and the unusual winter warmth of memory. Always, one’s arrival here is by chance, turning the corner of a reminiscence and smitten by the sudden fever to narrate. On occasion, when you get to the front, you'll find all doors shut. You'll need to knock with a steady, decisive hand, regardless of the sense that a dream is just a dream. Once inside the Pub of Phrases, at the bar you may order a pint of Adverbs, Nouns or a carafe of the 'Here begins" Phrases. The refined sometimes order subjunctives, but only if the pint is well pulled. Extroverts begin and finish the night with Adjectives, which however require a slow tapping, giving them time not to accumulate and to settle in the right dose in the glass, in order to avoid excess of cream. Conal, the most daring, orders the Ale of love phrases. In the Pub of Phrases you can tell and find or lose the sentence that you drink, every kind of drop in every kind of glass, until the insistent flashing lights signal the last order at the bar: one chooses the last verb, someone the last noun, someone else the final adjective or a half pint of punctuation and then, in that moment, when ones's forget that everything ends and one's remember that we live to feel a sense of "us", the whole Pub shapes and sings its own communal, intoxicating phrase of the night. The pub of phrases reopens when Fiona dreams. di Alessandro Negrini
La portata della solidarietà dimostrata nei confronti di Giorgia Meloni è quintupla rispetto a quella ricevuta da: Silvia Romano per essersi convertita all’Islam, Virginia Raggi sommersa da fango sessista solo per il fatto di esistere, senzatetto bagnati con gli idranti col beneplacito del comune di destra di Vicenza, da uno delle decine e decine di omosessuali attaccati da fascisti. Da uno, uno qualunque, delle centinaia di migranti annegati in mare. Senza nome. Senza volto. Senza telefonata del Presidente Sergio Mattarella, che sono certo da domani spenderà ore al telefono per indirizzare loro la dovuta solidarietà. Uno ad uno. Quindi, stendiamoci nella solidarietà a Giorgia Meloni e nella giusta condanna degli orrendi insulti, per dire basta all’odio – dentro una consapevolezza storica però: chi semina idee fasciste, razzismo e odio deve ricevere solidarietà, ma non può dare lezioni di solidarietà. Aggiungo che la nostra solidarietà assume sempre con più chiarezza tratti classisti: si manifesta, con enfasi, se ad essere attaccato è un rappresentante del mondo che appare, collocato nella “presentabilità” borghese, e ancor più se appartenente al PalazzoSolidarietà sfocata, invece, limitata nell’arco di un trafiletto quando va bene, ignorata quando va male – e cioè quasi sempre, se ad essere attaccato è un appartenente al mondo degli invisibili. Infine: mi chiedo, vi chiedo, ora, a Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia e alla Lega: per quale motivo non propongono, appoggiano, suggeriscono una legge che punisca l’odio razziale e di genere? La risposta la sappiamo: perché la violerebbero, per poter esistere. Solidarietà. E coscienza storica. Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano: www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/22/giorgia-meloni-quando-la-solidarieta-e-classista/6109243/ Con buona pace di chi ha venduto l’imbarazzante agiografia di Draghi come il banchiere santo, keynesiano e mandato dal cielo, è uscita qualche giorno fa una notizia enorme, feroce, eclatante. L'entità della notizia è pari solo a quella del silenzio che l'ha avvolta: il neo Presidente del Consiglio Mario Draghi, al Consiglio europeo del 25 e 26 febbraio, avrebbe opposto un secco rifiuto all’invio di 13 milioni di dosi di vaccini all’Africa. Lo ha riferito il quotidiano Le Monde. Secondo la ricostruzione del quotidiano francese, alla proposta di Macron e Merkel di destinare le dosi all’Africa, Mario Draghi ha risposto con un secco no nonostante Paesi come Belgio, Svezia, Paesi Bassi e Spagna si fossero espressi in modo favorevole.
Nonostante quest’accusa pesantissima, su questo accadimento in Italia non è quasi volata parola. Padre Janvier Yameogo, voce del Vaticano per le Comunicazioni sociali l’ha definita “una vergogna”. Farebbe ora sorridere, alla luce di questo atto così ferocemente neoliberista, ripensare ai tanti articoli usciti al fine di costruire la narrazione del Draghi “Santo”. Se non fosse che fa piangere: eccola, la cultura del “capitale umano”, che è tale a patto che non sia d’intralcio come quello dell’Africa, perché dell’Africa il capitale che ci interessa sarà sempre e solo quello delle loro risorse. Eccolo uno degli effetti della trasformazione della politica in gestione aziendale: nel paradigma dove tutto viene trasformato in merce, dove ogni azione politica viene valutata non in ragione della sua giustizia sociale ma solo dal suo essere “performante”, non esistono più cittadini ma, al massimo, clienti da soddisfare: e i clienti, secondo una lettura opportunistica del malessere sociale, vogliono i vaccini. Ergo, urge soddisfare i propri clienti e i propri committenti, e chi se ne importa se quei 13 milioni di vaccini non arriveranno più in Africa. E allora, forse le domande sono dovute, per chi non è cliente, ma cittadino: è questa la blasonata competenza così idolatrata dai giornali? E’ questa l’encomiabile calma delle scelte decise che bramavano i commentatori politici? E questo il metro di successo dell’ideologia aziendalistica applicata allo Stato? Lasciare dietro un intero continente? La risposta è semplice: quella ora al governo è la destra liberale, in doppiopetto, che non grida e che in punta di piedi, con competenza ed autorevolezza, non perde la propria matrice generante: il lasciare indietro chi da sempre è indietro. Che affama. Che comprime diritti, lo stesso senso della solidarietà cristiana, il credo religioso al quale paradossalmente tutti loro appartengono. Sottraendo, persino l’ipotesi di sognare la dignità, perché la dignità è un favore e non un diritto, la solidarietà una futilità e non un dovere. Ma le domande dovrebbero proseguire, entrando nel tessuto istituzionale: non rammentiamo alcun passaggio nel discorso al Senato di Mario Draghi dove si ipotizzasse una accelerazione sui vaccini a discapito degli aiuti all’Africa. A quale titolo Mario Draghi ha preso questa decisione? In nome di chi? E perché nessuno gliene chiede conto? Quando e dove e chi ha deciso che questa decisione enorme facesse parte di quella “delega aziendale” con la quale gli è stato affidato il Paese? Perché non ne riferisce in Parlamento? Quanto accaduto è un atto di una violenza pregna di una sola logica, la risposta alle domande fatte sopra: l’inconfessabile dis-prezzo per chi non può avere un prezzo. In tutto questo, la stampa ignora la notizia, senza nemmeno che vi sia il bisogno che la censura le venga imposta. La ignorano e basta, in una sorta di azione pavloviana dove – quando l’argomento sono le responsabilità verso gli ultimi, ultima deve essere la notizia che loro riguarda. E’ una resa, assoluta, feroce, desolante di fronte alla cultura che i competenti chiamano dell’efficienza e che i vinti, gli invisibili, chiamano del disumano. La Storia ufficiale è abitata da tante storie invisibili e tuttavia nude. Non basta, non basterà vestirle con la perizia e la preparazione per renderle meno disumane. L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto quotidiano www.ilfattoquotidiano.it/2021/03/12/draghi-il-dis-prezzo-competente-per-chi-non-ha-santi-in-paradiso/6129737/ Quand'ero piccolo, andavo a giocare in un campetto nel quartiere Lingotto di Torino chiamato "Karl Marx".
Una volta chiesi a colui che nella mia vita per breve tempo adottai come padre, il meraviglioso operaio Francesco del secondo piano: - "Chi è Karl Marx?" Lui ci pensò pochissimo e mi rispose così: "È un signore che ci ha detto che non è giusto rubare il tempo agli uomini in cambio del pane". Io non capii. Ma mi rimase dentro la vita questa frase, mi rimase per sempre nello sguardo e nelle vene e nelle mani, sia quando sono carezza, sia quando sono pugno chiuso verso il cielo. Oggi è l'anniversario della nascita del Partito Comunista Italiano. Riuscii a votarlo una volta, prima che coloro che oggi lo celebrano decisero di cambiarlo geneticamente. E allora alzo quel pugno antico e sempre appena nato, verso questo cielo sotto al quale la politica può essere democratica, a patto che non sia democratica l’economia. Perché nel mondo dove dire "ideologia" si fa peccato (a meno che non si celebri l'unica idolatrabile, il neoliberismo) Marx è e sarà il pensatore che più ha subito tentativi di ridimensionamento, accantonamento, infiniti tentativi di riporlo nel dimenticatoio, e tuttavia, anche oggi, la sua opera rimane viva e palpitante. E nella nascita di quel partito ci sono le storie mai narrate, i dimenticati, le lotte per coloro che contano solo se dimenticano il proprio volto, un partito nato da giganti, giganti perché parlavano non solo agli uomini dell’epoca, ma parlano ora, a noi, adesso. Il degrado è, ancora e sempre, rubare tutto il tempo della vita in cambio del pane. Dentro l’anno passato c’è il mondo interrotto.
Ma io non vi voglio augurare di riprendere la “perduta normalità”. Perché la normalità aveva già in sé qualcosa di abnorme e folle e anormale, qualcosa di ben più grande che già era stato interrotto, ben prima che ad interrompersi fosse la nostra quotidianità. Io vi auguro di ritrovare ciò che si interruppe, o che fu trascurato, o svilito o addomesticato molto prima di un anno fa, molti, molti anni fa, sino a dimenticarcene: l’idea di un “noi” più grande di quella del nostro ombelico. La visione di una famiglia che non finisce sul pianerottolo del nostro appartamento, ma che lì comincia, proseguendo sulle panchine, sui treni, nel luogo di lavoro. Nelle strade di mille sguardi sconosciuti e abitati da storie degne d’essere ascoltate, aiutate, com-prese. Vi auguro di riprendere il filo perso tantissimo tempo fa, il filo che ci rende vicini a ciò che siamo nati per riuscire a fare: il tentare di ritrovare i nostri ricordi di esseri umani in divenire là dove li avevamo lasciati o seppelliti, ben prima dell’arrivo del Covid: tornare a provare a nascere veramente. Questo nuovo anno ha ancora dentro di sé la parola “venti”, con un “uno” a seguire. Ma “venti” sarà sempre anche il plurale di - “vento”. E allora vi auguro di riprendere il vostro mondo, ma con dentro dei venti nuovi. Venti che scorrono in vie zeppe di un sole chiamato dignità, di venti che sanno entrare anche nei tombini dell’ingiustizia, tra gli stipiti di finestre di quella solitudine che sbatte sorda, venti che sono anche banalità, e roba da bere, e pioggia, e vomito, e cicatrici, e scintille e lune piene – ma sempre dentro l’umano e la difesa dell’uomo. E vi auguro di fare errori. Gli errori che si fanno quando non si può fare altro che quelli. Perché sempre, da sempre e per sempre, è negli errori che si vive, che si cammina. Coi Venti in volto. Vi auguro un 2021 che non sia un ricominciare la vecchia normalità. Ma che sia un risveglio. Fate nuovi errori. Fate gloriosi, stupefacenti errori. Buon anno, a tutti, con i venti dietro a pulire i nostri sguardi. Ho fatto un altro sogno bellissimo.
Una mattina, di colpo, senza preavviso, le persone lamentose da lockdown che vivevano in appartamenti con vista mare, o vista montagna, o collina, e giardino e centottanta confort e Netflix e un portafoglio che consentiva loro di ordinare la cena a domicilio da un discreto ristorante, queste persone - inconsolabili e tristi – venivano, in un baleno immaginifico, trasferite in un bilocale. Con altre quattro persone. Con vista muro, senza internet e pasta di grano di provenienza indefinita a cuocere nella pentola. E un vino scadente, ma solo nei giorni di festa. Le persone che invece sino ad allora avevano speso il lockdown in almeno in quattro in un bilocale venivano, di colpo, senza preavviso, trasferite in un appartamento confortevole con vista mare, vista montagna, vista colline, cent'ottanta confort, Netflix e una bella cena e un costoso vino e tanti divani dover poter distendere la tristezza e la solitudine del lockdown. Era il sogno della vita finita a testa in giù. I primi, finiti nel bilocale, non realizzando il privilegio nel quale sino ad allora avevano vissuto, finivano col pensare che al peggio non vi è mai fine, e che la vita è un castigo uguale per tutti, e con naturalezza iniziavano a risognare le stesse cose che prima prendevano per scontate. In alcuni di loro invece, gradualmente, nasceva un senso più ampio della parola carcere, della parola buio, della stessa parola tristezza. Guardavano il muro orfani del mare e della montagna e delle colline, e capivano: anche la tristezza ha una prima, una seconda, una terza classe. I secondi, finiti negli appartamenti dei primi, muti di bellezza, guardavano il mare o la montagna o le colline, e mentre sedevano in giardino con il bicchiere di vino costoso, distesi sul divano, di colpo iniziavano a pensare la vita come a una possibile festa. Perché vedevano. Perché ora potevano avere il tempo di riflettere su ciò che era stata la loro vita. Sui sogni abdicati, le carezze non date, le promesse tradite, le battaglie non combattute. Ma soprattutto perché comprendevano, finalmente, che la disuguaglianza non è una legge naturale, e che il castigo sino ad allora vissuto era stato in realtà un doppio castigo. E capivano: anche la tristezza ha una prima, una seconda, una terza classe. E che il tramonto da quella finestra è più intenso, se si intravede il giorno in cui quel sole sarà identico per lo sguardo dei primi e lo sguardo degli ultimi. Lo amo perché sul campo era l'equivalente del cinema e della prestidigitazione. Era lo stupore. Era l’imprendibile. Come se la partita fosse tra Maradona e i birilli. E invece erano giocatori avversari che sembravano correre a rallenty, ipnotizzati da un incantesimo. Era Houdini. Lo amo perché era l’opposto di questo football, asettico, venduto, ridotto a indici da quotare in borsa. Perché lo scopo primario nel gioco di Maradona non era nemmeno vincere, era prima creare la meraviglia. È quello che deve fare il cinema, l’arte: riuscire ad avvicinare anche chi non sarebbe avvicinabile. Creando ciò che in questa società del disincanto è sopito se non estinto: lo stupore. Ma soprattutto lo amo per questa ragione: non perché provenisse dal più povero dei sottoproletariati argentini, il barrio Villa Fiorita. Non per il suo riscatto sociale basato sul suo genio che gli ha dato fama e ricchezza. Né per essersi tolto da quell’Olimpo che forse non lo voleva più e lo preferiva caduto nella polvere. Lo amo perché ha fatto una cosa che nessuno faceva, fa e farà nel mondo dello sport (e tantomeno nel mondo della cultura): schierarsi. Schierarsi contro i padroni della terra. A fianco dei dimenticati e degli oppressi. Gli stessi dimenticati dai quali lui proveniva. Perché schierarsi costa, sempre. Sia che i potenti siano i padroni del Fútbol come Havelange, sia che siano i presidenti delle nazioni che dichiarano “Missioni di pace” bombardando a 3000 metri di altezza, come George W. Bush. Lo amo perché, in controtendenza ai tempi in cui gli stessi oppressi finiscono col difendere il loro oppressore, Diego Maradona aveva una qualità culturale, umana e intellettiva che se è oggi rara in chi è oppresso, ancor più rara lo è in chi riesce ad emergere dalla miseria come destino obbligatorio: aveva - la coscienza di classe. Quella consapevolezza, il sapere di provenire dalla parte di mondo defraudata, sfruttata, inginocchiata che ipocritamente viene chiamata “I Paesi in via di sviluppo”. Il sapere che c’è una Storia non detta, una seconda Storia: quella degli oppressi, dei diseredati, di tutti quelli che non sono riusciti o non hanno potuto uscire dal fango di un’altra Villa Fiorita, e non dimenticarsene. I suoi sbagli li ha pagati. Ma Maradona ha incarnato anche un altro paradigma di classe: se a compierli quegli sbagli è un uomo fuori sistema, che viene dal sud, e che quel sistema osa criticarlo, quegli sbagli li deve pagare. Se a compierli è un uomo gradito al sistema, il prezzo da pagare diviene molto più esiguo. Come Michel Platini, per esempio, le cui vicende di corruzione mai hanno condizionato la narrazione che di lui viene fatta né mai hanno demonizzato la sua immagine. Mai si dirà di Platini “Era un grande, ma come uomo era piccolo”. Perché non veniva dal mondo dei dimenticati senza dimenticarsene, perché non aveva mai osato opporsi al mondo che lo aveva coperto d’oro e poi spremuto come un limone. In una trasmissione televisiva di tanti anni fa, poi ripresa nel docu-film di Asif Kapadia, Italo Cucci disse che “Maradona è un singolare caso di entusiasmi che si sono via via tramutati in disappunto. Perché tutti speravano che andasse a Napoli a fare il figurino ma non a vincere. Appena ha cominciato a vincere e diventato subito antipatico. Poi lo hanno anche accusato di essersi arricchito e di aver voluto fare le feste che di solito fanno i ricchi con lo stesso cattivo gusto, ma siccome lui è originario povero non se le poteva permettere.” Lui. Tracagnotto e non fighetto come i giocatori debbono essere dagli anni 80 in avanti. Verranno fiumi di inchiostro a spiegare perché Maradona deve essere ridimensionato. Così come arriveranno fiumi di elegie annacquate che tenderanno a neutralizzarne la storia politica, esattamente come la cultura pop ha neutralizzato la storia di Che Guevara . Lo amo per essere diventato, come disse Eduardo Galeano, “un dio sporco, il più umano degli dei”. Per essersi tirato giù da quell’Olimpo da solo. E una volta a terra, una volta sporco, si è schierato con quelli di cui a nessuno frega più di un calcio di rigore. Perché mi ricorda che anche caduti nel fango, occorre avere coscienza storica e avere il coraggio di pronunciare i nomi di chi pratica l’infamia contro chi non nasce nel simbolico Nord della vita. Lo amo perché, forse senza saperlo, Diego Maradona è stato tutti i Sud del mondo. Note: One of the Countries that are celebrating the victory on the Nazi dictatorship is Russia. I am pleased to host the article by Russian photographer Anna Pavlikovskaya along with her visual work. Uno dei paesi che contribui' alla vittoria sul Nazi-Fascismo fu la Russia. Sono lieto di ospitare l'articolo in inglese della fotografa Anna Pavlikovskaya insieme ad alcune delle sue foto relative a Volgograd, Stalingrado sino al 1961. A CITY ON THE VOLGA FOREVER IN MY HEART By Anna Pavlikovskaya
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ALESSANDRO NEGRINI
Appunti, provocazioni, pinte e danze. Archives
June 2023
Alessandro Negrini
Regista per errore, poeta per caso, flaneur per scelta. |